con qualche sorpresa e, confesso, una punta di insipiente sconforto, leggo che lei intende proporre un referendum online per chiedere agli italiani cosa non va nella scuola italiana: “Domande semplici su dieci temi” sulle quali lei dichiara la volontà di aprire un dibattito in tutto il paese. Ora, mi perdoni, ma non capisco: cosa c’è di poco chiaro nelle informazioni che, come ministro e come cittadino di questa repubblica, lei di certo ha già ricevuto in ogni forma? Noi italiani non siamo noti per la capacità di tacere sulle inadempienze vere e presunte del governo: direi piuttosto il contrario. [continua]
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Nell’audizione del 6 Giugno, davanti alle commissioni riunite del Senato e della Camera, lei ha presentato le sue linee programmatiche. Si trattava di un documento lungo e dettagliato, stilato con competenza formale e basato, è naturale presumere, sulla competenza che l’ha condotta al posto che occupa. Su ROARS e altrove, si è sviluppato, in questi ultimi mesi e prima, un dibattito diffuso su ciò che manca e che non funziona nel sistema dell’istruzione italiano. Ad esso hanno partecipato studenti e docenti, sollevando una varietà di questioni, in modo garbato, collerico, ilare, avvilito, depresso o entusiasta, sconclusionato o assennato. Non dubito che a migliaia le avranno mandato mail. Ci sono state mobilitazioni, manifestazioni, dibattiti aperti, convegni.
Contro la scandalosa e autolesionistica sparizione della storia dell’arte dai programmi si è sviluppata una campagna virale di insegnanti, sostenuta da Italia Nostra, che è servita a raccogliere più di 16.000 firme. A Milano, tanto per far riferimento alle mie empiriche e molto limitate conoscenze, docenti formati per insegnare discipline specifiche e presumibilmente esperti su contenuti ben precisi devono cercare spesso comicamente di interagire, senza aiuto alcuno, con classi in cui molti studenti non parlano italiano: è loro diritto – degli studenti, cioè – essere lì, ma vogliamo continuare a prendercela coi docenti che sono incompetenti e fannulloni, secondo la comoda vulgata corrente, oppure possiamo provare a pensare che magari spendere qualche soldo per razionalizzare l’uso dei mediatori linguistici e culturali sia, a questo punto, necessario? Riflessioni di questo tipo rimbalzano gioiosamente sul web e nella vita reale non credo da ieri.
Dolorosa e delicata è la questione dei ragazzi con bisogni educativi speciali o dei disabili, ed è questione nella quale non vorrei entrare, per rispetto non solo per la fatica anche economica che devono fare i genitori ma anche per la solitaria dedizione di alcuni (molti) insegnanti e presidi che, dal mio modesto angolo di visione, vedo arrampicarsi sui vetri insaponati senza rete di sicurezza sotto. Ogni tanto qualcuno cade, e il rumore, reale e simbolico, si sente con chiarezza, e produce anche un certo clamore sugli organi di stampa: abbiamo sempre avuto una passione, noi italiani, per le cadute, a prescindere dalle successive risurrezioni.
E a proposito di presidi: sempre a Milano, oltre alle vittime del “concorso delle buste trasparenti”, ci sono presidi che hanno scuole divise in più plessi (in sedi diverse, ovviamente) e che in tempi recenti si sono trovati nella condizione di acquisire in reggenza, magari, un’altra scuola, anch’essa divisa in più plessi. La responsabilità di tutti questi plessi è intuibilmente gravosa, soprattutto se si tiene conto del fatto che spesso le scuole, anche qui nel favoleggiato nord, hanno strutture che fanno sembrare le pretese di informatizzazione e formazione adeguata uno scherzo di cattivo gusto.
Lei dice: “Oggi la scuola italiana è fortemente centralizzata, ma il funzionamento dei singoli istituti dipende dai singoli presidi. Se sono capaci, le loro scuole funzionano. È così, ma non saprei dire perché: le consultazioni mi aiuteranno” . Mi scusi, forse sono limitata, ma in che modo il concetto è oscuro? Il preside è un dirigente, con responsabilità pesantissime, inimmaginabili per chi in una scuola – magari media inferiore, magari in zona depressa, magari in un contesto di criminalità diffusa – non ha mai messo piede. A volte, il responsabile istituzionale di questa complicata situazione è un dirigente “incaricato” (e dunque pagato poco più di un insegnante). A volte è una creatura intermedia e meticcia, ovvero un “incaricato” ammesso “con riserva” (curiosa formula, che credo esista solo in Italia: altrove, uno o è ammesso o non lo è) a un “concorso riservato”, che ha poi vinto ma al quale, alcuni anni e un numero imprecisato di ricorsi dopo, gli hanno spiegato che non avrebbe dovuto neanche essere ammesso: perciò, nonostante continui a fare il suo mestiere con discreti risultati, questa creatura senza patria, per la legge, non ha e mai avrà i requisiti per fare il preside “vero” (leggasi con uno stipendio e una copertura pensionistica adeguati).
Ora, sono d’accordo con lei: ci sono anche nella scuola, come in ogni settore, persone capaci e cialtroni. Ma, mi perdoni, non sono io che devo dirle chi lavora e chi no, e attraverso quali strategie discriminare il lavoratore capace e il bandito per mettere in atto quello che è meglio per la scuola italiana. Il Ministro è lei: vista la situazione, spetta a lei immaginare un sistema di soluzioni. A cosa le serve un referendum? Per quel che conta il mio parere, ascolti quest’altra voce insipiente: risparmi i denari senz’altro necessari per formulare le domande, somministrarle e realizzare lo spoglio delle risposte, dalle quali emergerà solo un livore prevedibile e persino comprensibile, e spenda la congrua cifra così accantonata per, magari, comprare della carta igienica, ritinteggiare dei muri e riparare delle porte, assumere qualche mediatore, garantire maggiore rispetto umano ai disabili, ipotizzare iniziative di formazione culturale o persino garantire le ore di sport assortiti la cui assenza fa dei nostri rampolli italiani dei pigroni.
Oppure faccia addirittura di meglio e ci aiuti tutti a capire come aiutare docenti, presidi e studenti meritevoli a restare dove sono senza uscire di senno, e insegni a questo nostro popolo di confusi elettori e contribuenti come sostenere le eccellenze che ora fuggono a gambe levate da questo disgraziato paese.
da Il Fatto Quotidiano | di Nicoletta Vallorani | 6 gennaio 2014